Cardiochirurgia Ospedale Sant'Andrea Roma

 
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Scarsa considerazione dell'aspetto mentale del pz.

Vorrei fare una premessa. Nonostante il triste epilogo, vorrei ringraziare tutti gli infermieri e il personale medico dei vari reparti, Cardiochirurgia (e Terapia intensiva), Cardiologia e Malattie infettive, “visitati” da mio padre, Renato B., durante la sua degenza all’ospedale S. Andrea. In particolar modo il mio ringraziamento va ai medici specializzandi di Cardiochirurgia per la loro dedizione e umanità.

Allo stesso tempo vorrei anticipare le mie conclusioni. La mia valutazione del reparto non e’ dovuta alla mancanza di preparazione tecnica del personale medico, che anzi, mi e’ sembrata di buono od ottimo livello. Quello che mi ha colpito negativamente è stata, nella maggioranza dei casi, la totale mancanza di considerazione di quello che è l’aspetto, ed il benessere, mentale e psicologico del paziente, considerato al rango di una macchina biologica rispondente unicamente a terapie farmacologiche.
Mio padre entra nel Pronto soccorso il 21/05/2023, per un infarto, e il 22/05 viene ricoverato nel reparto di Cardiologia, dove gli viene riscontrata un’occlusione massiccia delle coronarie. Gli viene quindi proposta, nonostante l’eta’ avanzata (83 anni), un’operazione per l’installazione di due bypass e la sostituzione di una valvola cardiaca, che papà accetta.
Viene quindi trasferito, un paio di giorni prima dell’operazione, al reparto di Cardiochirurgia, viene messo in camera con un signore, che poi si scoprira’ avere il Covid. A questo proposito devo dire che, in reparto, la prevenzione dei contagi infettivi mi è sembrata particolarmente rilassata: ciascun paziente poteva venire visitato da svariate persone, senza un effettivo controllo sull’applicazione di mascherine. Mi ricordo che questo signore tossiva frequentemente e, nonostante questo, è stato sottoposto a tampone solo in un secondo tempo, più o meno quando mio padre stava sostenendo l’operazione.
Papà viene operato il primo giugno dal bravo chirurgo dr. Capuano, con esito, a dire dei medici, estremamente positivo. Tuttavia, dopo essere arrivato in Terapia intensiva (come da prassi dopo un intervento al cuore) risulta positivo al Covid (verosimilmente contratto dal suo compagno di stanza). Qui, per lui, comincia l’inferno; non per il Covid in sè, i cui sintomi lievi (febbre a 37.0-37.5) durano appena due giorni, ma per i protocolli ospedalieri d’isolamento, che lo costringono in una stanza, una sorta di “acquario”, improvvisata appositamente per lui nel reparto di Terapia intensiva.
Qui, circondato da apparecchiature che emettono forti e fastidiosi rumori giorno e notte, papà viene assistito in maniera discontinua e spesso in ritardo, per il fatto che, per entrare nella sua stanza, ogni volta gli infermieri si devono bardare come astronauti, quindi non possono rispondere ad ogni richiesta d’assistenza. Qui papà, docente di latino in pensione ma ancora molto attivo nella ricerca (nonostante nella cartella clinica, per motivi ignoti, si menzioni una licenza media inferiore), ritrovatosi a guardare il soffitto, senza la possibilità di muoversi o leggere, inizia ad avere allucinazioni e crisi di panico: i muri si avvicinano, gli oggetti si muovono, le dimensioni orizzontali e verticali si invertono (per dare un’idea, quando io sono in piedi davanti al suo letto, lui mi vede sdraiato e lui si vede in piedi). Lo riferisco ai medici, ma mi dicono che e’ normale e che non mi devo preoccupare. Lui vorrebbe disperatamente tornare a casa, ma i dottori me lo sconsigliano decisamente (anche se mio padre, teoricamente, a parte la positività, asintomatica, al Covid, potrebbe gia’ cominciare la riabilitazione). Io e mio fratello lo andiamo a visitare tutti i giorni, comunicando al telefono separati dalle pareti di vetro. Col senno di poi, lo avrei portato a casa in quel momento.

Papà era una persona già ansiosa di suo, anche se gli devo dar credito di essersi sforzato notevolmente, a volte con successo a volte meno, di dominare le sue paure durante la degenza. Ogni giorno d’isolamento in piu’ in quelle condizioni è una mazzata alla sua tenuta psichica. Eppure, per motivi a me ignoti, i tamponi Covid non vengono effettuati quotidianamente, ma ogni 2-3 giorni.
Dopo una decina di giorni, ancora positivo al Covid, viene trasferito al reparto di Malattie infettive. E’ ancora in isolamento, ma in una stanza normale, anche se qui non lo possiamo vedere (anche se io vado quotidianamente a parlare con i dottori). Continua a dire ai medici di turno delle sue paure, della paura di restare solo la notte, di voler tornare a casa, dell’ansia e degli attacchi di panico, della solitudine a cui non resiste piu’ (cose menzionate anche nella cartella clinica).
Una dottoressa del reparto richiede per ben due volte una consulenza psichiatrica, che non verra’ mai effettuata. E’ in questa fase che scopro, casualmente, che il suo antidepressivo, inserito nella lista dei medicinali abituali, lista che avevo consegnato al momento del ricovero, non gli e’ mai stato somministrato perche’, mi dicono, i vari reparti non lo contemplano (altra indicazione di quanto il quadro mentale sia considerato). E nessuno me ne ha mai fatto cenno. Al che, ovviamente, comincio a fornirlo io direttamente al personale.
Il 22 giugno, finalmente, arriva la negativita’ al Covid, e viene ritrasferito a Cardiochirurgia. Io intanto ho gia’ preso contatti con una fisioterapista, un’infermiera e il cardiologo personale di papa’, per eseguire la riabilitazione a casa. Il 23, tuttavia, arriva la mazzata finale: per trovare la causa di un problema al fegato, viene fatta un’emocoltura, attraverso cui si scopre un’infezione da Stafilococco aureo. I medici cominciano a trattare papà con un potente cocktail di antibiotici per via endovenosa, cura che, pero’, comincia solo il 27 (questo e’ un altro punto dolente, tutto avviene con estrema calma, senza parlare dei weekend in cui si ferma tutto). La fisioterapia, che comincia solo dopo la negativizzazione da Covid, viene eseguita in maniera discontinua, e ogni sessione dura al massimo 5-10 minuti. Mio padre non mangia piu’, e il primo luglio viene applicata la nutrizione parenterale. Il 5 luglio la nutrizione viene staccata perche’ sembra che abbia ricominciato a mangiare, ma poi smette di nuovo. Questo e’ un altro aspetto che mi sorprende: durante 40 giorni di degenza postoperatoria, papa’ praticamente non ha mai smesso di prendere antibiotici, spesso combinati insieme, ma non gli e’ stato, che io sappia, in questo periodo, somministrato nessun probiotico o altro rimedio contro gli inevitabili danni all’apparato digestivo e alla flora intestinale. Non mi sorprende che non mangiasse piu’ (gli ultimi giorni era irriconoscibile da quanto peso aveva perso).
Papà è sempre piu’ abbattuto. Il 2 luglio viene richiesta per una terza volta una consulenza psichiatrica, a cui, un’altra volta, non viene dato seguito. Io continuo a chiedere, come faccio da settimane, che venga a trovarlo uno psicologo, anche solo perche’ abbia qualcuno con cui parlare. Mi viene detto che lo psicologo viene in reparto tutti i giorni, e che quindi non ci dovrebbero essere problemi; tuttavia nessuno psicologo ha mai parlato con papa’ dal giorno dell’operazione, e mai lo fara’. Intanto un’emocoltura prelevata il 5 luglio mattina risulta negativa, ma la negativita’ verra’ dichiarata ufficiale solo il 12 luglio. Anche qui mi chiedo, perche’ il protocollo fa attendere una settimana per dichiarare la negativita’, quando qualsiasi medico mi ha detto che dopo 48/72 ore gia’ si dovrebbe essere sicuri del risultato?

Il 7 luglio papà è sottoposto a toracentesi al polmone sinistro, dove gli vengono tolti 1500 ml. di liquido, conseguenza di un versamento pleurico dovuto all’inattivita’. Si dovrebbe fare anche al polmone destro, ma bisogna aspettare vari giorni, perche’ papa’ e’ “scoagulato”. Ora, questa e’ la mia ennesima domanda, pur se non relativa al reparto od ospedale specifico, ma al protocollo nazionale: perche’ mai, in nome del cielo, per il post-operatorio di un paziente cardiologico, l’unico anticoagulante ufficialmente testato, e quindi utilizzabile, e’ un farmaco di prima generazione, inaffidabile ed imprevedibile (questo mi e’ stato detto dagli stessi dottori dell’ospedale), quindi, in teoria, estremamente pericoloso? Mio padre usava un anticoagulante piu’ recente che non gli ha mai dato nessun problema. Invece, da quando e’ stato operato, quasi tutte le rilevazioni, fino all’ultimo giorno, hanno mostrato valori profondamente alterati dei tempi di coagulazione, che, oltre a rappresentare un rischio di per se’, ritardano necessariamente l’esecuzione di piccoli interventi, quali appunto una toracentesi.
La seconda toracentesi, dopo la quale sono ormai deciso a riportarlo a casa, a costo di sfidare qualsiasi parere negativo dei medici, non avverrà mai. Il 12 luglio mi viene comunicata la morte di papà, per quello che sembra un attacco cardiaco.

Il medico di turno e gli altri dottori del reparto non si spiegano il decesso.

Io, tuttavia, un’idea ce l’ho.
Mio padre presentava uno stato psicologico fortemente alterato e debilitato dalla degenza, soffriva di intense allucinazioni, attacchi di panico e un forte senso di solitudine. Sono state richieste tre consulenza psichiatriche e tante volte ho richiesto che venisse a parlare con lui uno psicologo. Tutto questo e’ stato completamente ignorato.
Papà si è lasciato andare, è morto d’ospedale, solo a causa di protocolli rigidi quanto, spesso, inumani ed illogici, seguiti da una classe medica che non arriva a capire quanto conti l’aspetto mentale di una persona, soprattutto se anziana. E anche quanto un giorno in piu’ o meno lontano da casa, per un anziano, possa fare la differenza tra la vita e la morte.

Patologia trattata
Inserimento bypass e sostituzione valvola cardiaca.
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